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Al di qua delle rappresentazioni

CONSIDERAZIONI SUL MOVIMENTO NOTAV

a cura del Collettivo Cinematografico Inesistente

Da due mesi a questa parte si sta in fine attuando quello che una lunga narrazione fatta di parole e di silenzi, di fatti seguiti a discorsi, aveva preparato. Questa narrazione è cominciata in maniera significativa con lo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena e di essa sono stati protagonisti le parole dei giornali ufficiali e dei politici, e i silenzi di qualunque figura di intellettuale. Discorsi si sono sovrapposti a fatti, dichiarazioni e articoli hanno riempito di scientifiche verità i momenti di lotta del Movimento No Tav, analizzando anatomicamente le sue componenti, ripercorrendone la storia e individuandone le radici politiche, classificando le sue tendenze e i suoi umori, separando meticolosamente le sue ragioni dalle sue colpe. Si è andata costruendo un’immagine paragonabile a quella di un corpo: la realtà No Tav come un oggetto di discorso su cui innestare dei campi d’indagine. Un corpo, com’è ovvio, interagisce con l’esterno: studiandone l’anima e i comportamenti si possono individuare gli effetti che produrrà su di esso.


Consapevolmente o no, in maniera più o meno congiunturale e premeditata, tutti i discorsi dei poteri mediatici e politici hanno contribuito a isolare il movimento criminalizzandolo, gridando al pericolo pubblico non appena se ne dava l’occasione e relegandolo al silenzio in ogni altro momento. L’immaginario dell’antagonismo degli anni ’70 si è subito stagliato in quest’orizzonte discorsivo; autonomia, anarchici, galassie anarco-insurrezionaliste, blac-block, gruppi organizzati militarmente, rivolte del Maghreb e della Grecia, odio, frustrazione e violenza, illegalità e pazzia, questo il lessico utilizzato per dire la verità sui No Tav. Pericolo, sicurezza e repressione le conseguenze.
Gli arresti di due mesi e mezzo fa pensati con cura e meticolosità, le cariche a freddo di sabato 25 febbraio alla stazione di Torino sono il chiaro segnale di una strategia della tensione finalmente in atto, senza mezzi termini, che ha bisogno di quel perpetuo discorso di legittimazione che crea il bene placido o l’indifferenza dell’opinione pubblica. Il gesto di Luca Abbà ne è stato un effetto: tutto è lecito se è per un progetto fatto passare come ineluttabile, tutto è lecito se è per salvaguardare la sicurezza della popolazione contro una seria minaccia para-terroristica (si parla, nei dossier dei servizi segreti, di ritorno alla lotta armata). L’apparente irreversibilità e l’esplicita violenza di questa architettura di saperi e poteri che si chiama TAV stava per creare il primo “martire” o il primo “eroe” che niente poteva se non difendere quello che gli stavano togliendo anche a costo della vita.
Il potere isola e il movimento non riesce a scavalcare le regole del gioco. Il nemico diventano polizia e giornalisti. Lo scontro si limita ad essere scontro fisico, barricata contro scudi, pietre contro manganelli, slogan contro una marmaglia di cani rabbiosi e pronti ad ammazzare: si è disposti a tutto pur di difendere la valle. Se si rimane solo su questo piano la battaglia la vinceranno loro, a suon di arresti che passeranno sotto silenzio, di cariche a dir poco violente relegate a questioni di ordine pubblico.
Qualsiasi pratica di lotta, per quanto autogestita, radicale e determinata, non può nulla se non è accompagnata da un discorso e da una strategia politica all’altezza della situazione. L’interlocutore non possono essere gli sbirri, braccio armato di un potere ben più capillare, diffuso, fatto di una molteplicità di piani che bisogna sempre tener conto. Non si può ridurre il fronte di analisi e quindi l’orizzonte di azione di lotta sul piano della repressione nozione “del tutto inadeguata a render conto di quel che c’è di produttivo nel potere. Quando si definiscono gli effetti di potere attraverso la repressione ci si da una concezione puramente giuridica di esso; avrebbe soprattutto la potenza dell’interdizione. Quel che fa sì che il potere regga è che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi; bisogna considerarlo come una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale, molto più che come un’istanza negativa che avrebbe per funzione di reprimere”. Queste sono le sacrosante parole di Foucault che noi tutti conosciamo, qualcuno fino alla nausea, parole che devono passare dai nostri libri, ai nostri corpi alle nostre azioni.
Dobbiamo produrre noi per primi una nostra narrazione che abbia come scopo di frapporsi a quella attualmente dominante del potere istituzionale: far proliferare scritti e montaggi video di qualità al di fuori del tessuto militante, inviare materiale di analisi e critica (riguardo al movimento notav e al sistema di dispositivi che ruota intorno alle Grandi Opere) a riviste indipendenti o meno, introducendoci violentemente nei piani di discorso altri rispetto a quelli del ristrettissimo movimento antagonista; dobbiamo sì aumentare le pratiche di conflitto all’interno del tessuto urbano, ma che abbiano una portata comunicativa dirompente o violentemente provocatoria.
Non ci sono mezzi termini, non c’è solidarietà che tenga, qui si tratta di arginare un dispositivo repressivo che rischia di schiacciare con ferocia tutto un movimento, di soffocare le eccedenze e i possibili che ha creato fin’ora.
L’autodifesa, così come l’”attacco”, non si giocano, oggi, su un piano militare, ma su un piano di intelligenza strategica e di profondità di analisi politica. Non possiamo concederci il lusso, durante le assemblee, di parlare solo di appuntamenti e questioni tecniche riproducendo in termini un po’ macchiettistici le logiche di “realtà in collaborazione”. Non possiamo permetterci di continuare a pensare che il mondo, al di fuori di noi, sia composto da imbecilli servi del potere, che per far parte dei No Tav bisogna per forza aver esperito le libere repubbliche della maddalena di ieri di oggi. Non è pensabile che di fronte a un cordone di sbirri riusciamo soltanto a rinsaldarci tra di noi, a ringhiare contro i play mobil rendendogli l’onore di essere i nostri privilegiati nemici e a non accorgerci che in una condizione di disparità di armi si potrebbero ristabilire NOI le regole del gioco: rivolgerci alle persone circostanti e comunicare con loro, dirottare la situazione su azioni diverse che non siano quelle dello scontro tout court.

Quindi le istituzioni (politiche e mediatiche) hanno aperto un orizzonte di discorso riguardo alla lotta contro il Tav, hanno creato dei soggetti agenti, i “valligiani”, i “blackbloc”, gli “esterni”, i “solidali”. Li hanno ben definiti, con le loro differenze e le loro peculiarità. Talvolta hanno dimostrato una certa acutezza d’indagine. Così anche i Servizi Segreti hanno “lavorato bene” al fine di cogliere il tessuto di relazioni e di incontri tra mondi che questo movimento ha potuto creare da un anno a questa parte. Ho notato che qualcuno dei diretti interessati di questi reportage 007 ha sorriso soddisfatto di fronte agli scenari descritti: si parlava di pericolo di ricongiunzione di frange del movimento antagonista fin’ora in conflitto, di estensione del discorso contro il treno a quello contro un sistema produttivo e affettivo proprio della nostra epoca. A me, sinceramente non viene da ridere, no. Non rido perché non dovrebbero esser loro (giornalisti e Digos) a parlar per noi alla gente. Lo facciano, è il loro mestiere: controllare, indagare, sorvegliare e punire. Ma coloro che si sentono coinvolti in queste anatomie, in queste descrizioni, parlino a loro volta. Parlino sopra, contro, a…, ma parlino. Parlino con i gesti, con le azioni, con la scrittura o con il video, ma parlino.

Category: uno sguardo

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